Il Giornale, Manila Alfano, La fine dei paradisi fiscali,

Il Giornale, Manila Alfano, La fine dei paradisi fiscali,

Il Giornale.
La fine dei paradisi fiscali

La crisi di San Marino, se ne vanno 200 aziende
Manila Alfano

La fine di San Marino è un colpo d’occhio sulla statale. I camion dei traslochi fanno avanti e indietro. Le aziende di San Marino se ne vanno: caricano, attraversano il confine e vanno ad aprire sedi in Italia. La Rupe resta là, in alto, come un miraggio. In trenta giorni sono più di duecento le aziende che hanno aperto una sede in Italia. «Nessuno vuole vendere o acquistare da San Marino, spiega il sindacalista Giorgio Felici. Chi lavora è costretto a trovare vie di fuga, l’Italia per loro oggi rappresenta l’unica soluzione. Il futuro? E chi può dirlo. Tornare a San Marino significa chiudere».
Il Titano è stretto nella morsa; soffre ed emigra. L’ultima società che parte è la Tb Trade. La proprietà lo ha comunicato ufficialmente ai circa 40 dipendenti ieri mattina. «Un messaggio lapidario, che non lascia spazio ad alcuna trattativa sul futuro dei lavoratori», osserva la Federazione Industria. Sul futuro dei 40 lavoratori, 8 frontalieri e 31 sammarinesi, non ci sono certezze. «È urgente – dicono i sindacati – conoscere le nuove strategie aziendali e aprire una trattativa per stabilire le prospettive occupazionali». Ora il sindacato vorrebbe aprire un tavolo sull’emergenza economica, anche perché nei prossimi mesi l’elenco delle aziende in fuga rischia di allungarsi.
«Purtroppo è una rivoluzione, spiega Felici, non abbiamo mai visto una situazione così, fronteggiarla è complicato, le aziende hanno paura, i dipendenti sono letteralmente terrorizzati. Qui trema tutto, chi resta a San Marino è perduto, i fornitori non vogliono fare fattura a San Marino». A spiegare il motivo della grande fuga un piccolo artigiano su Facebook, Fabrizio F. che racconta un aneddoto: «Un’azienda ha preferito regalarmi 400 euro di materiali piuttosto che farmi una fattura. Hanno paura di avere la guardia di Finanza alle costole». E allora? Meglio trasferirsi. Come hanno già fatto colossi sammarinesi come Erba vita, oltre cento dipendenti, o Passepartout che produce software, oltre centoquaranta impiegati. Tra loro il 20 per cento verrà trasferito, gli altri aspettano e incrociano le dita. Intanto la società ha già parlato di «situazione strutturale problematica, ci sono costi alti da affrontare, tagli da dover fare». Il trasferimento è un problema. Sono tentativi di tamponare situazioni impreviste, in mezzo ci sono le vite dei dipendenti, che al momento non hanno certezze. Un dipendente della Passepartout racconta a Il Giornale di essere stato riconfermato: «Io sono uno dei più fortunati, so che andrò a Pesaro a lavorare, certo per me è molto più scomodo, cambiano le abitudini, ma almeno mi tengo il lavoro, molti di noi non sanno ancora cosa succederà». Quello che è certo, è il sentimento di impotenza del governo del Titano, schiacciato tra l’incudine e il martello. Da una parte la fuga di capitali dalla Rupe innescata dallo scudo fiscale, e dall’altro la manovra di contrasto alle relazioni economiche tra Italia e San Marino, contenuta nel decreto incentivi entrata in vigore dal primo luglio. Basti pensare che, secondo i dati ufficiali forniti dal Segretario alle Finanze, Pasquale Valentini, dal 15 settembre del 2009 al 30 aprile scorso, l’amnistia fiscale targata Tremonti ha portato a una fuga di 5 miliardi di euro dalle banche del Titano, più di un terzo del totale dei depositi stipati nei forzieri della Rupe. «Siamo consapevoli che il rapporto con Roma per noi sia vitale ma non possiamo accettare un atteggiamento di chiusura e di avversione totale nei confronti di San Marino, ha spiegato il Segretario di Stato agli Esteri, Antonella Mularoni. Per questo tentiamo con la strada del dialogo, ma siamo pronti a portare la questione nelle opportune sedi internazionali». Se si tratti di Ocse o Commissione Europea al momento non è dato da sapere.

Intanto Carlo Giorgi dell’associazione industriali cerca di tranquillizzare i sammarinesi: «Il problema non è la black list ma la situazione interna». Ma chi ci crede?

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